SI PUO’ RINUNZIARE AL DIRITTO DI PROPRIETA’?

12 novembre 2018

SI PUO’ RINUNZIARE AL DIRITTO DI PROPRIETA’?

Il presente contributo si propone di esaminare il tema della rinunziabilità al diritto di proprietà e ai diritti reali di godimento, argomento attuale in quanto connesso ad un contesto economico difficile in cui la proprietà non è sempre vista come fonte di reddito: al contrario, essa è spesso fonte di spese e responsabilità. In primis, occorre concettualmente scindere due fattispecie che potrebbero apparire del tutto identiche ma che nascondono alcuni elementi differenziativi quanto agli effetti: la rinunzia al diritto di proprietà esclusiva, e la rinunzia alla comproprietà di un bene. Ulteriormente, è bene precisare immediatamente che il problema della rinunzia alla proprietà riguarda la rinunzia "abdicativa", ossia realizzata per mezzo di un atto unilaterale, e non la rinunzia "traslativa", che si realizza per mezzo di un negozio bilaterale e quindi concretizza un vero e proprio negozio di trasferimento del diritto. La rinunzia al diritto di proprietà esclusiva viene tradizionalmente ricostruita come negozio giuridico unilaterale non recettizio, mediante il quale l’autore dismette una situazione giuridica di cui è titolare. Il suo effetto essenziale è unicamente l’abdicazione da parte del soggetto alla situazione giuridica di cui è titolare. L'acquisizione da parte di un altro soggetto è effetto solo indiretto del negozio di rinunzia abdicativa; nel caso di rinunzia traslativa, invece, l'acquisizione del diritto da parte di un altro soggetto è effetto immediato del negozio. La rinunzia abdicativa, che, si ribadisce, è quella che pone maggiori problematiche in quanto realizzata unilateralmente, non richiede la conoscenza né tanto meno l’accettazione da parte di altri soggetti. Con riferimento al suo oggetto, gli interpreti si dividono tra coloro che non ritengono possibile la rinunzia al diritto di proprietà, e coloro che la ritengono ammissibile. La teoria negativa si fonda essenzialmente su due capisaldi. In primo luogo, la rinunzia abdicativa alla proprietà potrebbe comportare un facile strumento per eludere le norme fiscali e sottrarsi al pagamento di determinate imposte e, pertanto, costituirebbe un negozio contrario al pubblico interesse. In realtà, si obietta, la finalità elusiva va valutata caso per caso, e non è necessariamente elemento caratterizzante ogni negozio abdicativo del diritto di proprietà. In secondo luogo, i fautori della tesi negativa evidenziano come la perpetuità propria del diritto di proprietà non sarebbe conciliabile con la possibilità di dismetterlo. Si può rilevare in contrario che anche in presenza di un negozio di rinunzia al diritto di proprietà quest'ultima non si esaurisce, ma, in mancanza di altri comproprietari, la proprietà si trasmette allo Stato. A sostegno della conclusione positiva, possono addursi molteplici argomenti quali: il fatto che nessuna norma escluda espressamente la rinunziabilità del diritto di proprietà; il carattere disponibile del diritto in esame; la previsione da parte del legislatore di specifiche ipotesi, sia pure peculiari, di rinunzia al diritto di proprietà (in particolare agli articoli 882 e 1104 c.c.); la circostanza che per escludere la rinunziabilità in relazione alle parti comuni dell’edificio il legislatore è dovuto intervenire espressamente (art. 1118 c.c.); la disparità di trattamento che si creerebbe altrimenti rispetto ai beni mobili, dei quali è indiscutibile la possibilità di abbandono; l’espresso riferimento contenuto negli artt. 1350 n. 5 e 2643 n. 5 c.c. L’effetto di tale rinunzia, come sopra anticipato, è l’acquisto dell’immobile in capo allo Stato ai sensi dell’art. 827 c.c. A tal proposito, si segnala un recente orientamento dell’Avvocatura dello Sato nettamente contrario all’ammissibilità di tale rinunzia, prospettando anche l’esercizio dell’actio nullitatis (https://www.federnotizie.it/wp-content/uploads/2018/06/parereavvocatura.pdf). Si tratta di un acquisto a titolo originario, che costituisce effetto solo indiretto e mediato della rinunzia, e che trova fondamento nella legge. La rinunzia alla proprietà ha natura di negozio unilaterale non recettizio, per il quale è da escludersi un potere di rifiuto da parte dello Stato. L'acquisizione da parte dello Stato è l'elemento che distingue la rinunzia alla proprietà dalla rinunzia alla quota di comproprietà. Quest'ultima, infatti, comporta un accrescimento delle quote degli altri comproprietari, e non una devoluzione del diritto in favore dello Stato. Il codice civile prevede espressamente ipotesi di rinunzia alla quota. Tra queste, in particolare, viene in rilievo la rinunzia liberatoria di cui all’art. 1104 c.c., che si caratterizza per la circostanza che alla rinunzia al diritto reale si accompagna la dismissione di una situazione debitoria. Coerentemente alla sua natura abdicativa, anche la rinunzia alla quota ha natura di negozio unilaterale non recettizio: pertanto, non è necessaria la conoscenza altrui ai fini dell’efficacia del negozio. Resta comunque fortemente opportuna le conoscenza per gli altri comproprietari, in un’ottica di reciproca correttezza ed in ragione dell'effetto espansivo che si realizza rispetto alle altre quote. La rinunzia abdicativa alla quota di comproprietà determina un fenomeno di espansione delle quote altrui che costituisce una conseguenza della natura della comunione e, come sopra già esposto, non costituisce un effetto diretto della rinunzia, bensì solo indiretto e mediato. Sembra da escludere la possibilità di un rifiuto dell’accrescimento da parte degli altri contitolari. Il rifiuto, quale rimedio generale contro le altrui intrusioni nella propria sfera giuridica, opera solo con riferimento agli atti che producono come effetto diretto tale intrusione. Nel caso in esame, invece, manca una diretta alterazione della sfera giuridica altrui e, in ogni caso, resta salva la facoltà da parte dei restanti condividenti di rinunziare a loro volta alla propria quota, così come accresciuta. Molto diverse sono, altresì, la fattispecie della rinunzia abdicativa e quella della rinunzia liberatoria della quota di comproprietà, quest'ultima è un'ipotesi eccezionale in cui alla dismissione della quota di comproprietà si accompagna la liberazione dai debiti. Nel caso di semplice rinunzia abdicativa, il rinunziante, mentre non sarà tenuto a corrispondere le spese concernenti la cosa comune per il tempo successivo alla rinunzia in quanto egli non risulterà più essere proprietario della stessa, rimarrà tenuto all’adempimento di tutte le obbligazioni inerenti la cosa sorte fino al giorno della rinunzia. Nella rinunzia liberatoria, disciplinata dall'art. 1104 c.c., invece, all’effetto abdicativo si accompagna, per espressa previsione del legislatore, un effetto estintivo dell’obbligazione. In questo caso, dunque, il condomino, rinunziando alla propria quota, dismette il diritto di cui è titolare al fine di liberarsi da tutte le obbligazioni inerenti la cosa, non solo (come è ovvio) per il futuro, ma anche per quelle già sorte. Con riferimento alla rinunzia liberatoria, la dottrina ritiene che essa abbia carattere recettizio. Ciò trova spiegazione non tanto nella dismissione del diritto reale, quanto piuttosto nell’effetto eccezionale di liberazione dal debito. La trascrizione della rinunzia ai diritti reali è espressamente prevista dall'articolo 2643 n. 5 c.c. In relazione a detta trascrizione, si pongono due problemi: se la trascrizione sia necessaria ai fini dell'opponibilità ai terzi ai sensi dell'art. 2644 c.c., e come debba essere curata detta trascrizione. Sotto il primo aspetto, il carattere puramente abdicativo della rinunzia induce ad escludere che ad essa sia applicabile il principio espresso dall'articolo 2644 c.c. e volto a dirimere controversie in caso di più aventi causa dal medesimo soggetto. Per quanto concerne la modalità pratica per eseguire la trascrizione, vi sono varie correnti di pensiero. Vi è chi, enfatizzando il carattere abdicativo, ritiene che la trascrizione vada fatta sempre soltanto a carico del rinunziante, e mai a favore di qualcuno. Altri ritengono che debba farsi anche favore dei comproprietari che vedono accrescersi le loro quote, quantomeno in caso di rinunzia alla quota di comproprietà, non essendo necessaria la trascrizione a favore dello Stato negli altri casi. Altri ritengono che debba sempre individuarsi il soggetto a favore del quale eseguire la trascrizione. In conclusione, la rinunzia abdicativa manifesta alcuni tratti comuni caratterizzanti le varie fattispecie: si tratta, anzitutto, di un negozio unilaterale non recettizio, che non richiede accettazione né deve essere portato a conoscenza di terzi. Lo stesso, inoltre, è causalmente diretto unicamente alla dismissione del diritto soggettivo. Eventuali conseguenze per i terzi sono effetti solo riflessi e, ciò contribuisce a spiegarne il carattere non recettizio. Diversa è la rinunziabilità agli obblighi. Nei casi in cui esiste una posizione di debito (come nel diritto di enfiteusi ovvero nelle fattispecie di rinunzia liberatoria, quali quelle di cui agli artt. 1070 e 1104 c.c.) la rinunzia assume una fisionomia diversa (cosiddetta rinunzia liberatoria). Occorre, infatti, una espressa previsione di legge affinché il debitore possa spogliarsi del debito senza il consenso del creditore. Stante il pregiudizio che questi risente, la dichiarazione di rinunzia deve inoltre essergli portata a conoscenza (e ciò trova conferma anche nella disciplina della remissione del debito, art. 1236 c.c.), assumendo pertanto natura recettizia.

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